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Materia  e Memoria

nelle opere di :

Proust – Montale – Munch – M. Rosso – Burri

Ho fatto questa ricerca per indagare il significato che può avere per me il fare arte oggi. Per questo ho determinato un percorso che prende in esame l’opera d’arte e il modo in cui questa diventa tangibile, LA MATERIA ; e come centra quel patrimonio di vita personale, intellettuale, emotivo ed intuitivo, LA MEMORIA, laddove indirizza l’artista nel suo percorso.

Per fare questo ho preso come riferimento un grande filosofo francese, che a suo tempo ha influenzato anche l’espressione artistica, ed alcune sue teorie sull’uomo e sull’artista : Henri Bergson.

Henri Bergson

Berson nasce a Parigi da famiglia ebraica, studia filosofia, chimica e biologia, corona la fine dei suoi studi laureandosi nel 1889.Dapprima dedito all’attività di insegnante nei licei, la brillante carriera lo porta ad assumere la prestigiosa cattedra al Collegio di Francia dal 1899 al 1921, anno in cui è costretto ad abbandonare la vita accademica per problemi di salute.

Già famoso e celebre (le sue lezioni erano considerate alla stregua di un vero e proprio evento), morì di malattia durante l’occupazione nazista a Parigi, rifiutandosi di fuggire per condividere il proprio destino con quello della sua gente, nonostante negli ultimi anni avesse iniziato ad accostarsi alla religione cattolica.

MATERIA e MEMORIA, secondo Bergson, sono due diverse manifestazioni di un’identica attività creatrice, presente ad ogni livello della natura.

La mia riflessione parte da questo spunto: l’arte e il frutto della sua attività creatrice, le opere, in cui queste due componenti risultano come un’unica cosa, così come lo sono per l’autore che le crea.

Cos’è la MATERIA, cos’è la MEMORIA

La materia non è qualcosa di inerte. Ce lo insegnano la fisica, la chimica, la biologia moderne, derivandolo dalla struttura degli atomi. Queste particelle infinitamente piccole contengono al loro interno elementi in continuo movimento e mutamento tra loro, soggetti alla creazione di agglomerati diversissimi, che la chimica e la biotecnologia oggi sono parzialmente in gradi di manipolare. La materia si evolve e crea da sé nuova materia, secondo Bergson, in maniera imprevedibile, e non soggetta al determinismo meccanico teorizzato da Darwin e dal positivismo. Le scienze biologiche mostrano una straordinaria proliferazione di forme viventi (cellule, batteri) là dove l’uomo vede solo la staticità della forma. La materia è vita, e la vita è sempre ad ogni livello creazione, innovazione, imprevedibilità. Non è un progresso lineare – matematico, ma i vegetali, gli animali e l’uomo, sono forme diverse in cui si esprime lo slancio vitale che è l’essenza della natura : forza creativa allo stato puro.

Ciò che nella natura appare come materia allo stato passivo è solo il residuo dell’inevitabile decadimento che attende ogni slancio vitalistico.

Bergson usa la metafora dei fuochi d’artificio : ogni razzo saettando verso l’alto con la forza travolgente del suo impulso, emula la spinta vitale, salvo poi, esaurita la sua quota di energia, ricadere verso il basso, spento, amorfo, esaurito. La materia è una ricaduta dello spirito, l’altra faccia della sua natura.

Gorge Bernard Shaw coglie nel processo creativo di Rodin questa connessione con lo slancio vitalistico, mentre posa per lui per un ritratto scultoreo:

“ Nel giro di un mese, il mio busto attraversò successivamente tutte le tappe dell’evoluzione dell’arte. Dopo i primi quindici minuti si placò nell’attenta riproduzione dei miei lineamenti nelle loro esatte dimensioni. Poi questa forma di fedele rappresentazione tornò misteriosamente alle origini stesse dell’arte cristiana e in quel momento ebbi voglia di gridare : « Fermatevi in nome del cielo, e datemi questa scultura: è un capolavoro di arte bizantina! ». Poi poco a poco, sembrò che il Bernini intervenisse nell’esecuzione. In seguito con mia grande desolazione, i tratti si addolcirono e il busto divenne un autentico pezzo di scultura del XVIII secolo, di tale eleganza che si sarebbe detto che Houdon avesse ritoccato una testa modellata da Canova o Thorvaldsen. […] Ancora una volta trascorse un secolo in una sola  notte; il mio busto divenne un busto di Rodin, ed era l’immagine perfetta della testa reale che poggia sulle mie spalle. Si era trattato di un processo che avrebbe dovuto studiare un embrionologo, non un esteta.

La mano di Rodin aveva agito non come la mano di uno scultore, ma come uno slancio vitale.” (G.B.Shaw, Rodin, “The Natio” 1912)

 Secondo Bergson la memoria è la coscienza stessa; e non è qualcosa ce si compone di stadi successivi concatenati tra loro, ma è qualcosa di unico e indivisibile, che cambia continuamente tutto il proprio contenuto, non prevedibile, né determinato: E’ una creazione istantanea, in forme sempre nuove, di ciò che è stato amalgamato dal momento attuale : è una crescita qualitativa.      Il concetto di tempo si fa relativo nella memoria, perché l’uomo percepisce, nel presente, il tempo come durata. Quest’ultima dipende dalla quantità di attenzione che noi investiamo in una percezione : esistono attimi più intensi ed altri attimi più lunghi di altri. Per la coscienza un attimo può protrarsi per l’eternità, altri sembrano talmente veloci da non meritare nemmeno di essere annoverati nella nostra memoria.

“Il tempo non esiste,” per S. Agostino “siamo noi che passiamo”. Secondo il celebre Santo, in Dio nulla trapassa, ma egli vive un continuo presente : l’eternità. Il tempo è stato creato per l’uomo insieme al mondo, e il luogo in cui possiamo misurarlo è nell’anima. Anche per Agostino il tempo è soggettivo perché legato all’interiorità.

Dal punto di vista della fisica, Albert Einstein, manda definitivamente in frantumi la concezione classica di misurazione del tempo. Secondo le sue teorie non esistono nell’universo eventi che possono essere considerati simultanei, siano essi meccanici o elettrodinamici, perché in ciascuno la misura del tempo dipende da quale sistema di riferimento si adotta per osservarlo. Introduce il concetto di invariabilità della velocità della luce :

la luce viaggia nel vuoto a 300.000 km/s, la sua velocità si mantiene costante nel tempo e nello spazio, e non può essere superata.

Se un treno viaggia a 200 km/h, un signore seduto nel primo scompartimento vede il controllore che lo risale dalla coda verso la testa muoversi a 5 km/h. Mentre un osservatore da terra lo vede muoversi a 205 k/h. Ma se il controllore accende una lampada, entrambi gli osservatori vedono la luce muoversi alla stessa velocità : 300.000 km/h (e non rispettivamente, 300.005 e 300.200 km/h).

Da ciò deriva che anche per la fisica non esiste una misura del tempo assoluta, ma tutto dipende da quale sistema di riferimento viene preso in considerazione. Anche nell’ambito delle scienze positive dunque il concetto di tempo è relativo.

Nel suo saggio “materia e memoria”, Bergson parla della memoria come di un “tessuto” di cui è fatto lo spirito, e di materia come di ricaduta dello spirito. Ciò che permette in interiorizzare il mondo esterno è il nostro corpo : sede di ogni percezione della materia e di ogni sensazione derivata dalla coscienza (memoria).

Vi è una memoria automatica o pura che non serve all’azione, ma registra il passato; mentre la memoria cosciente seleziona questo materiale al fine di utilizzare solo la parte utile all’azione.

“Noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato, ma quando agiamo e desideriamo lo facciamo alla luce di tutto il nostro passato, di tutta la nostra coscienza, anche della memoria pura.”

“Il passato si conserva da sé automaticamente. Esso ci segue tutt’intero in ogni momento : ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia e là, chino sul presente che sta per assorbire, incalzante alla porta della coscienza che vorrebbe lasciarlo fuori.”

L’attenzione che rivolgiamo a un’esperienza presente fa sì che la memoria filtri soltanto quella parte di ricordo che possa servire ad agire.

Eppure, “ accade in casi eccezionali, che l’attenzione rinunci in un sol colpo all’interesse che prendeva alla vita: immediatamente, come per incanto il passato ridiviene presente. In persone che vedono sorgere davanti a sé, all’improvviso la minaccia della morte subitanea, nell’alpinista che scivola al fondo di un precipizio, negli affogati o negli impiccati, sembra che si produca una conversione brusca dell’attenzione, qualcosa come un mutamento di orientamento della coscienza che, fino a quel momento rivolta verso l’avvenire e assorbita dalle necessità dell’azione, immediatamente se ne disinteressa. Ciò è sufficiente affinché mille e mille dettagli “dimenticati” siano rammemorati, affinché la storia intera della persona si svolga in un panorama mutevole.”  (ampliamento della percezione).

Il presente, per Bergson, è omnicomprensivo di tutta la storia dell’individuo, e come una melodia non può essere scomposto. L’attenzione che rivolgiamo alla vita  può allungarsi o accorciarsi in un determinato momento, ed è esattamente questo sforzo che determina ciò che definiamo presente.

“ L’intelligenza combina e separa, sistema, sposta, coordina, non crea. Ha bisogno di una materia e questa materia non può che venirle dai sensi o dalla coscienza:”

Egli vede nell’arte un’estensione della facoltà di percepire e di cogliere sfumature di emozioni e pensiero che a noi restano altrimenti invisibili.

Il poeta è appunto questo rivelatore. Colui che crea un ampliamento percettivo del presente e lo fissa in un’immagine. E il motivo per cui lui riesce a fare questo è perché e meno preoccupato degli altri del lato positivo, materiale della vita : è, nel senso proprio della parola un “distratto”.

“… di tanto in tanto per qualche accidente felice, nascono uomini i cui sensi e la cui coscienza sono meno aderenti alla vita. La natura ha dimenticato di attaccare la loro facoltà di percepire a quella di agire. Quando guardano una cosa, la vedono per sé stessa, non per loro. Non percepiscono semplicemente in vista dell’agire, percepiscono per percepire, per niente, per il piacere. In una parte di sé, della loro coscienza, o di uno dei loro sensi, essi nascono distaccati. E a seconda che il distaccamento interessi uno o l’altro senso, o la coscienza (memoria), essi sono pittori o scultori, musicisti o poeti. Ciò che si riscontra dunque nelle differenti arti, è una visione più diretta della realtà. L’artista percepisce un più grande numero di cose, perché pensa poco a utilizzare la sua percezione.”

 MARCEL PROUST e il tempo perduto e ritrovato

Proust nasce a Parigi nel 1871, suo padre è medico e la madre, di famiglia ebrea, appartiene alla ricca borghesia dell’epoca. Cresce in un clima familiare caloroso. Toccato dall’asma da fieno già a nove anni conosce un’infanzia molto protetta e sviluppa presto la sua sensibilità letteraria.

Si interessa di architettura, pittura, scultura, letteratura classica e moderna. Esordisce come scrittore su alcune riviste simboliste, dopodichè pubblica il suo primo volume “I piaceri e i giorni”, in cui inizia la narrazione di luoghi e personaggi. Ma è in “Jean  Santeuil” che inizia a mescolare ricordi del passato con le osservazioni della vita mondana attuale : è il preludio della “Recherche”. Nel 1906, dopo la morte della madre e del padre, ai quali era legato da un affetto morboso, si trasferì in un appartamento di Boulevard Haussmann, dove fece applicare alle pareti della stanza un rivestimento in sughero per proteggersi dal rumore : qui isolato dal mondo scrisse “ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO”. Lavorò al ciclo di sette romanzi fino all’ultimo giorno di vita, che concluse alle tre di notte dopo aver scritto la fine.                           Gli ultimi romanzi vennero pubblicati postumi.

La “ Recherche”

Proust propone nell opera, un’analisi psicologica della società, e mostra come i rapporti sociali e quelli amorosi, funzionino sul desiderio di ciò che non si è potuto avere. L’uomo rivolge il proprio sguardo al passato, inquieto, cercando qualcosa da portare con sé : la verità, sé stesso. Perciò ha bisogno di comprendere ciò che è stato.

Il tempo abolisce e cambia tutto. I più grandi dolori come il più grande benessere, sembrano indimenticabili nel momento in cui vengono vissuti, ma si diluiscono quando la causa che li ha provocati svanisce. Solo nella memoria, l’uomo può cogliere con un unico sguardo le incessanti trasformazioni alle quali il tempo sottopone fatti, persone e sentimenti. Il passato diventa un deposito di atti, luoghi, apparizioni, presenze che avrebbero potuto fendersi e lasciar apparire ciò che nascondevano. Nella sua ricerca lui scopre il modo per recuperare quel passato, per trovare il senso della propria vita. Secondo Proust, vi sono attimi privilegiati che rivelano il trascorso, lui le chiama le “intermittenze del cuore”. Attraverso la rivisitazione di queste “intermittenze” le cose avrebbero cessato di essere morte e avrebbero rivelato il segreto che nascondevano.

Per ritrovare nella loro verità le emozioni di allora è necessario il soccorso alla memoria involontaria.                                    Una sensazione attuale (una visione, un gusto, un profumo…), può far emergere, alla soglia della coscienza, l’emozione sensibile e realmente provata un tempo.

“la memoria dell’intelligenza e dello sguardo non ci ridà del passato se non facsimili imprecisi, che non gli assomigliano più di quanto i quadri dei cattivi pittori assomiglino alla primavera. Sicché la vita non ci sembra bella perché non la ricordiamo, ma se percepiamo un vecchio profumo, ecco che subito entriamo in uno stato di ebbrezza […] Una parte del libro è una parte della mia vita che avevo dimenticata e che d’un tratto ritrovo mettendo in bocca una MADELEINE inzuppata nel tè; quel sapore m’incanta, prima ancora di riconoscerlo e di identificarlo, per averlo sentito in passato ogni mattina. Di colpo tutta la mia vita di allora resuscita, e accade, lo dico nel libro, come in quel gioco giapponese dei pezzettini di carta immersi in una tazza d’acqua, che diventano figure umane, fiori, ecc.

Tutte le persone, tutti i giardini di quel periodo della mia vita affiorano da una tazza di tè:”

E’ alla fine dell’opera nel “tempo ritrovato” che il narratore scopre infine la verità. Questa verità è che la vita trova il suo significato grazie all’arte e alla scrittura, che fissa il passato altrimenti votato alla distruzione. Il cerchio si chiude e ciò che presenta la conclusione era in realtà già nascosto tra le righe del primo volume.

 

EUGENIO MONTALE  e le “occasioni” della memoria

Montale nell’opera poetica intitolata “le occasioni” (1939), affronta il tema della memoria attraverso la circostanza del ricordo, e fa emergere simbolicamente la sua condizione interiore in un’Italia alle soglie della seconda guerra mondiale.

La memoria in Montale non offre soluzioni come in Proust; non vi è salvezza nelle emozioni rivissute o attraverso l’arte. E’ piuttosto permeata da un mal di vivere, senza conforto alcuno. Il destino del passato è di cadere nell’oblio, diventare evanescente.

Il suo linguaggio è scarno senza la musicalità e i virtuosismi dialettici di Dannunzio, e gli oggetti diventano metafora di sentimenti e riflessioni. L’elaborazione formale è raffinata, pur nella evocazione essenziale delle immagini, e impreziosita a volte da espressioni auliche, incastonate nel testo quasi a ricordare la nobiltà poetica. La sua poesia viene associata all’ermetismo per la scelta di non palesare il significato che contengono le opere, e racchiudono il loro tesoro in oggetti, situazioni o catene di eventi; riconducono a un’esperienza sensibile evocandone l’emozione.

Montale crea una tensione razionale e sensibile insieme, verso quelle “occasioni” del passato, che sono forse in grado di aprire un “varco” in un momento buio della storia personale e nazionale. La speranza si presenta come uno stato di grazia da recuperare attraverso un distacco possibile soltanto a ritroso nella memoria.

Una delle forze salvifiche che riscattano il poeta dalla mediocrità di un presente votato alla catastrofe, è rappresentato dalla donna. Questa sua ricerca appare a volte liberatrice a volte minacciosa, ma comunque introduce un “mutamento” nell’ordine delle cose.

“ Non recidere forbice quel volto,

solo nella memoria che si sfolla

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala… duro il colpo svetta

E l’acacia ferita da sé scrolla

Il guscio di cicala

Nella prima belletta di Novembre.”

Il poeta chiede alla propria memoria/forbice di non tagliare quel preciso ricordo dalla  mente, che si sfolla perché dimentica, ma di risparmiare almeno il volto di una donna dallo scorrere del tempo, che attenua le immagini e le rende confuse, impercettibili. Un freddo cala inesorabile come quando arriva l’inverno, e quindi diventa vana la sua speranza. Un implacabile colpo svetta fulmineo, in alto dove non si può arrivare, interrompendo bruscamente il suo desiderio. E l’acacia ferita, come il suo animo, scrolla da sé il guscio di cicala, involucro di un essere, che ha perduto ormai per sempre il dono del canto.

EDVARD MUNCH :

la memoria come indagine sull’esistenza – la materia che trasmette il dramma : il colore

Per comprendere di quale sostanza fosse tessuta la memoria di Munch è necessario uno sguardo a ritroso agli esordi della vicenda familiare:

Nasce a Loten (Norvegia) il 12 dicembre 1863, figlio maggiore del medico militare Christian Munch e di Laura Bjolstad. Aveva quattro fratelli: Sophie (1862), Peter Andreas (1865), Laura Catherine (1867), e Inger (1868).  Due di essi morirono giovani: Sophie di tubercolosi a quindici anni, Peter Andreas per annegamento a trent’anni . Malata di mente sin da giovane, Laura fu invece ricoverata in ospedale.

La madre di Munch morì nel 1868 quando lui aveva cinque anni e fu la sorella Karen Bjolstad a occuparsi da allora della famiglia e a incoraggiare in lui quel talento artistico che lei stessa coltivava. Da bambino Munch fu cagionevole di salute e per questo non frequentò con regolarità la scuola; gran parte del suo apprendimento ebbe luogo in casa.

Egli era molto orgoglioso della sua famiglia , ma riteneva che il suo patrimonio genetico fosse minato: “Mia madre era di origini contadine, una famiglia dalla volontà tenace, ma corrosa alla radice dalla tubercolosi. Mio padre discendeva da una stirpe di poeti con sprizzi di genialità, ma portava anche segni di degenerazione”.

Com’era dunque il suo passato?

Nel manifesto di Saint Cloud del 1880, egli ce lo descrive efficacemente attraverso il fenomeno dell’ombra: …Quando passeggiavo al chiaro di luna – tra le vecchie sculture ricoperte di muschio, che ora conosco una per una – rimango atterrito dalla mia stessa ombra – Dopo aver  acceso la lampada, vedo improvvisamente – la mia ombra enorme che va dalla parete fino al soffitto – E nel grande specchio sopra la stufa vedo me stesso – il mio stesso volto spettrale – E vivo con i morti – con mia madre, mia sorella, il mio nonno e mio padre – soprattutto lui – Tutti i ricordi, le più piccole cose – vengono alla superficie….”

E’ un passato dominato da spettri, dalla morte dall’angoscia, dalla paura di vivere.

E’ un tempo sempre presente, come la malattia che minaccia la sua vita sin dall’infanzia, e ha segnato i suoi affetti e dalla quale non vuole lasciarsi dominare, ma ne cerca il riscatto attraverso l’arte, per sé stesso e per il mondo, che vive, secondo lui, in un eterno tormento esistenziale tra amore e morte, serenità e angoscia.

Alla sua poetica di uomo e di artista contribuirono non solo le vicende familiari e la sua cagionevole salute, ma le gravi perdite subite nella cerchia di giovani amici dell’arte norvegese, e le personalità aut-aut, dalla grande sensibilità umanistica, che diedero infine un indirizzo determinante al suo credo di pittore e la qualità dei mezzi per poterlo realizzare.

Da Hans Jaeger (1854 – 1910), idealista, politico e propugnatore di una letteratura naturalistica di confessione, prese il coraggio, contrariamente all’ideologia del padre, di sfruttare le proprie esperienze personali e i tormenti più profondi della sua anima, come materia prima del proprio lavoro. L’opera d’arte, secondo questa concezione doveva essere soprattutto un documento umano:

“Dovremmo smettere di dipingere interni con gente che legge o che lavora a maglia, ma dovremmo dipingere gente che ama ,soffre, che vive e respira.”,

afferma in seguito Munch, creando così una separazione netta con tutta l’arte dell’impressionismo che lo aveva preceduto, per rivolgere l’attenzione a quel luogo invisibile dentro di sé in cui non esiste il tempo, e in cui l’uomo scopre i propri abissi. Lui questi abissi decide di dipingerli tutti, senza mediazioni o abbellimenti, ma con la volontà e la determinazione di chi vuole penetrare il significato profondo delle cose, certo forse che questa sia l’unica via da percorrere per trovarne il senso.

Altra fonte d’ispirazione fu la drammaturgia di Ibsen, dalla quale attinse quella visionarietà fatta di simboli, che gli avrebbe permesso la ricostruzione di situazioni e psicologie dei personaggi, e che gli svelò la forza dell’uso risolutivo del colore.

Munch dipinse anche molti paesaggi, sia come sfondi che come soggetto, ma di qualunque località si trattasse, Francia ,Germania o altre, le forme traevano origine dalle curve armoniose e ondulate del suo luogo natale a Loten, altro luogo della memoria, che conserverà durante tutta la sua produzione.

Il tempo attuale contiene per Munch un vissuto denso, fitto come la trama di una stoffa, in cui niente deve andare perso di ciò che si ama nella vita, anche là dove il dolore continuamente bussa alla porta della coscienza.

Strindberg, altro drammaturgo norvegese, gli fa conoscere la filosofia di Nietsche, che rafforza in lui quella già disincantata visione del mondo che non cerca il riscatto altrove, ma è rivolto a cercare, la “segreta forza che governa le azioni dell’uomo”. Secondo Nietsche ogni tentativo di razionalizzare la vita è impossibile ed è impossibile decifrarne i segreti ed è questo tentativo che ha reso l’uomo incapace di reagire con vigore rendendolo sterile e privo di vita. La sua visione proponeva un nuovo modo di intendere l’umanità,capace di accettare il bene come il dolore perché prodotto dalla dura legge della vita.

I detrattori dell’arte di Munch definiscono i suoi quadri :

-“Senza disegno e di un colore barbaro, di una materia ributtante per impaccio e pesantezza”. (Camille Mauclair)

-“trasforma troppo semplicisticamente oggetti e persone in una bruttezza indecente, con una esecuzione troppo naif…” (William Ritter)

- “il suo pensiero, complesso e ossessionato, si traduce spesso in un’espressione speciale e impressionante,il solo rimprovero che si può muovere a Edvard Munch è che egli ottiene gli effetti desiderati attraverso un modo di procedere troppo diretto: giunge a trasmettere un senso di terrore attraverso il colore o una combinazione di segni che, pur giustificati esteticamente, risultano sgradevoli. (Yvanhoé Rambosson)

Dipingere equivale dunque a un’operazione introspettiva, a un lavoro di ricerca dentro il proprio animo, al recupero di umori, di risentimenti, di ansie, di un vissuto tormentato mai sopito. Ma questi ricordi, queste immagini soggettive – e in questo risiede il suo ineludibile, straordinario apporto all’arte del XX secolo – potranno avere un valore ed un significato, come per Proust, soltanto se rese “oggettive”, ovvero in grado di essere condivise dagli altri.

Egli è interamente consapevole del fatto che la sua pittura “ è in realtà un esame di coscienza e un tentativo di comprendere il mio rapporto con l’esistenza: Essa è dunque per certi aspetti, una forma di egoismo, ma spero sempre di riuscire per il suo tramite ad aiutare gli altri a vederci più chiaro.”

La montagna umana / verso la luce

L’opera di Munch intitolata “la montagna umana” è inserita in un campo rettangolare, che è una figura equilibrata, con una prevalenza dell’orientamento verticale che da una dinamicità alla superficie.

Complessivamente l’artista realizza 19 quadri, una scultura, e diversi disegni sul tema della “montagna umana”, di cui quello che ho preso in esame si trova al Munch – Museet di Oslo ed è stato realizzato tra il 1927 – ‘29.

Al centro del campo simmetricamente disposta sull’asse mediana verticale si trova la raffigurazione di una montagna di forma triangolare, con la base poggiante nella parte bassa del dipinto e la punta che si estende verso la parte più alta. Simbolicamente questo elemento geometrico così disposto indica ascensionalità ed ha una connotazione fortemente positiva.

L’orizzonte divide la scena in due parti situandosi sulla mediana orizzontale della raffigurazione. Il dipinto è perfettamente equilibrato, in quanto scandito da una regolarissima simmetria che poggia sulle linee forza centrali, ortogonali tra loro.

L’incontro della mediana orizzontale e di quella verticale indicano rispettivamente la MATERIA che si incontra, idealmente, con la spiritualità, o coscienza, o MEMORIA.

Vi è una luce diffusa che permea tutta la composizione e caratterizzata da colori chiari, ad indicare un’armonia del dipinto e con una connotazione idealizzante degli elementi raffigurati. La montagna ha una dominante blu nelle sue diverse tonalità, come colore della spiritualità o dell’infinito. Nella sua parte terminale il alto, il cielo assume una colorazione bianca, con evidente significato di purezza, luce e verità, che la spinta ascensionale del dipinto vuole indicare.

Il centro della composizione è proprio la vetta che tocca la luce e sotto la quale un arcobaleno di colori si staglia a fasci in direzione delle figure, intente queste ultime a scalare il monte faticosamente, vista la sua ripida verticalità.

Da un lato sono evidenziate alcune figure nello sforzo fisico dell’arrampicata, indicano una dinamicità,  accentuata dall’orientamento diagonale  delle linee laterali e dalla posizione di alcune figure ; dall’altro, nell’angolo a sinistra, alcuni personaggi seduti si lasciano bagnare dalla luce dell’arcobaleno. Questi hanno un peso visivo che  attira il nostro sguardo, per la dimensione ridotta dei personaggi e la collocazione isolata rispetto all’insieme.

La figurazione non è ben definita, ma composta da linee spezzate e forme sintetizzate seppur evidenti nelle loro connotazioni.

Medardo Rosso

Medardo ha un approccio più scientifico alla realtà che rappresenta. “Nulla è materiale nello spazio”, afferma, precedendo di qualche decennio le teorie di relatività di spazio – tempo. Per lui ogni soggetto da rappresentare si rivela attraverso la luce ed è tutt’uno con lo spazio circostante, da cui dipende e che influenza con il proprio movimento.

“Voleva fissare nell’arte più materiale, la scultura, le impressioni più immateriali” (Prampolini).

La memoria di Medardo è contenuta nell’istante, nell’emozione, nell’impressione, che sono il fulcro di un’esperienza, perché in quell’attimo e in nessun altro può essere colta nella sua totalità. Come diceva S.Agostino : il presente contiene le esperienze passate, il momento attuale e le aspettative per il futuro, è una monade dell’eistenza.

I materiali scultorei che usa sono il gesso, la cera e il bronzo, ai quali lui dà pari dignità anche se i primi due erano usati solo come preparazione alla fusione dei metalli.

Scopre le potenzialità espressive insite nella materia stessa, capaci di riflettere qualità visibili nella fisicità di altre sostanze. Infatti la cera, materiale preferito, rassomiglia verosimilmente al marmo, mentre il bronzo, attraverso una particolare levigatura, mette in evidenza una gamma di colorazioni dovute all’effetto di luminescenza.

La materia risulta dunque dagli atti dell’artista che la tempra sui dati del momento.

Scrive Morice : Egli pensa….che un’essere esiste solo per le relazioni con tutti gli altri esseri…- vuol mostrare “l’istante di verità” che la posa non può dare e che bisogna in qualche modo rubare alle manifestazioni involontarie, inconscie della vita:”

Per Medardo noi siamo “scherzi di luce”, ombre della realtà, che si rivela solo a tratti attraverso l’intuizione.

Egli procede nella sua opera verso una dissoluzione della forma nella rappresentazione, avviando una ricerca che produrrà i suoi esiti più estremi nell’arte astratta del XX secolo.

L’attività di Rosso si può dividere in due fasi : la prima si conclude nel 1906 con “Ecce Puer” dedicata al fare; la seconda, fino alla morte nel 1928, a spiegare.

Nella seconda fase emerge in maniera sempre più determinante l’uso della fotografia, quando continua a lavorare alla rielaborazione di alcuni suoi temi. E’ intenzionato ad arrivare gradualmente a una sempre maggiore dissoluzione della forma nello spazio.

La fotografia per Medardo è uno dei possibili esiti dell’opera, perché considera l’immagine plastica un residuo d’ombra lasciato dalla luce. In opposizione a una fotografia puramente di documentazione dei lavori artistici come era abitualmente usata.

Egli fa propria la concezione di Degas secondo cui:

…è molto meglio disegnare quanto non si vede più che nella memoria.[…] Non si riproduce altro che quanto ci ha colpito, cioè il necessario.”

Dopo gli anni venti Rosso abbandona definitivamente la scultura e si dedica esclusivamente alla fotografia.

Alle sue sculture viene comunemente attribuita la definizione di “non finito”, per la sua caratteristica di non possedere contorni definiti e per questa volontà di amalgamare l’immagine dell’oggetto a quella dello spazio circostante; per la forma che emerge solo a tratti dalla materia , quasi alla maniera di Michelangelo, con una maggiore considerazione tuttavia della percezione ottica.

Alla fine del suo percorso artistico per Medardo Rosso dal finito, attraverso l’abbandono della materia, arriva dalla memoria come immagine dell’infinito.

Diritto

Il 29 marzo 1883 Medardo Rosso viene espulso dall’Accademia di Brera per indisciplina, perché aveva criticato i metodi didattici. Uno degli argomenti della disputa era il dissenso manifestato nei confronti dell’uso di modelli di gesso mentre lui argomentava la necessità di copiare dal vero.

La libertà di espressione in un paese che si consideri democratico, dovrebbe essere valida per ogni cittadino, nondimeno per chi usa un metodo di comunicazione pacifico come l’arte.

Tuttavia non è sempre così e nella nostra nazione, per assistere al riconoscimento della libertà di espressione, bisogna aspettare la promulgazione della Costituzione Italiana.

Dal punto di vista storico – politico, la costituzione nasce dallo Statuto Albertino, emanato da re Carlo Alberto di Savoia nel 1848 per il Regno di Sardegna, che nel 1861 assunse la denominazione di Regno d’Italia, estendendo la legge uniformemente a tutto il territorio. Le caratteristiche dello Statuto erano quelle di un ordinamento :

-       Flessibile. Poteva essere modificato con leggi ordinarie.

-       Concesso. Era dettato dal Sovrano senza il consenso del popolo.

-       Monarchico. Il sovrano aveva la massima autorità e le leggi seguivano una gerarchia monarchica.

-       Rappresentativo. Il popolo veniva rappresentato da un’assemblea. Il diritto di voto era limitato dalla cultura, dalla ricchezza, dal sesso.

-       Confessionale. La religione di stato era quella cattolica le altre erano tollerate.

Il sovrano aveva potere esecutivo, mentre il parlamento amministrava il potere legislativo tra Camera dei deputati e Senato. Ai giudici era affidato il potere giudiziario.

La flessibilità dello Statuto Albertino se da un lato permetteva una più immediata risoluzione della burocrazia giuridica, dall’altro non fu in grado di garantire le libertà democratiche e permise il passaggio del regime fascista in modo legale.

Solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si realizzò l’approdo a un ordinamento giuridico che tenesse conto dei principi di libertà e uguaglianza già promulgati in Francia nel 1789 con la Rivoluzione,in cui si stabiliva che : “tutti gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti.”

Il fascismo crollò il 25 luglio 1943 in seguito al voto del “Gran Consiglio”, e l’8 settembre, dopo l’armistizio, il re e il generale Badoglio abbandonarono Roma e iniziò la liberazione del paese.

Dopo il ritiro del re il 5 giugno 1944, i partiti antifascisti scelsero Ivanoe Bonomi come Primo Ministro del nuovo Governo, il quale permise al popolo la scelta circa la forma di governo da adottare.

Con il Referendum del 2 giugno 1946 l’Italia scelse come forma istituzionale la Repubblica. Contemporaneamente venne eletta un assemblea costituente composta da 75 deputati, rappresentanti tutte le diverse forze politiche italiane.

In questo clima democratico di differente rappresentanza politica, che teneva conto di tutte le ideologie e dei vari schieramenti presenti nel paese, venne redatta la nuova Costituzione Italiana il 27 dicembre del 1947.

A differenza dello Statuto le caratteristiche della Costituzione sono :

-       Il compromesso, in quanto tiene conto della diversa visione politica dei costituenti, per permettere un equilibrio fra il riconoscimento delle libertà individuali e la realizzazione di uno Stato Sociale.

-       La lunghezza, perché contiene sia i fondamenti, che l’organizzazione dei particolari aspetti della società. Contiene sia precetti, sia indicazioni sulle quali il Parlamento può legiferare.

-       È una Costituzione votata dal popolo tramite l’assemblea Costituente.

-       È rigida, perché può essere modificata solo attraverso un procedimento speciale.

-       È laica, perché abolisce qualunque discriminazione nei confronti delle diverse religioni.

-       È pluralista, perché considera le caratteristiche dei diversi membri della società, e la variabile delle nuove esigenze della realtà contemporanea.

La libertà di espressione in Italia è garantita dall’articolo 21, che fa riferimento ai diritti e doveri dei cittadini ed è così pronunciato :

-Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero, con parole, scritto o ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti; per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.

ecc………..

 

Storia

La ShoaH  – memoria disumana

Il 20 gennaio 1942 si tenne a Wannsee, presso Berlino, un incontro tra i vertici del regime e delle SS per coordinare e organizzare lo sterminio degli Ebrei.

In nome di una “purificazione razziale”, prevista dal “nuovo ordine” nazista di Hitler nel “mein Kampf”, morirono tra i 5 e i 6 milioni di Ebrei, durante la seconda guerra mondiale.

La “soluzione finale” della questione Ebraica si attuò tra il 1941 e il 1942 : un genocidio pianificato e attuato attraverso la deportazione, lo sterminio fisico e la reclusione nei ghetti.

Un delirio collettivo permeava la razza “ariana” guidata da un’autorità crudele e sanguinaria, in una Europa che si delineò complessivamente, alla fine del conflitto, al prezzo di 50 milioni di vittime.

Con una serie di leggi le autorità tedesche limitarono sempre più le possibili attività della popolazione ebraica fino a giungere, nel settembre 1935 alla promulgazione delle leggi di Norimberga che, di fatto, esclusero i cittatini di origine ebraica da ogni aspetto della vita sociale tedesca.

L’iniziale politica tedesca di obbligare gli ebrei ad un’emigrazione «forzata» dai territori del Reich raggiunse il suo apice nel corso del pogrom del 9-10 novembre 1938, passato alla storia con il nome di «Notte dei cristalli», quando circa 30.000 ebrei vennero deportati presso i campi di Buchenwald, Dachau e Sachsenhausen ed obbligati ad abbandonare, spogliati di ogni bene, la Germania e l’Austria (annessa nel marzo di quell’anno alla Germania) per poter riottenere la libertà.

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale la politica di emigrazione forzata non poté più essere praticata con successo a causa delle difficoltà imposte dalla guerra stessa. La nuova «soluzione» si basò sul fatto che in molte città d’Europa gli ebrei avevano vissuto in zone ben delimitate. Per questo i nazisti formalizzarono i confini di queste aree e imposero una limitazione degli spostamenti agli ebrei che vi erano confinati, creando i ghettimoderni.

I ghetti erano, a tutti gli effetti, prigioni nelle quali molti ebrei morirono di fame e malattie; altri furono uccisi dai nazisti e dai loro collaboratori dopo essere stati sfruttati nell’impiego a favore dell’industria bellica tedesca.

Durante l’invasione dell’Unione Sovietica oltre 3.000 uomini appartenenti ad unità speciali (Einsatzgruppen) seguirono le forze armate naziste e condussero uccisioni di massa della popolazione ebrea che viveva in territorio sovietico. Intere comunità vennero spazzate via, venendo catturate, derubate di tutti i loro averi e uccise sul bordo di fossati.

Nel dicembre del 1941 Hitler decise infine di sterminare gli ebrei d’Europa, durante la Conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942), molti leader nazisti discussero i dettagli della “soluzione finale della questione ebraica” (Endlösung der Judenfrage).

Dalle minute della Conferenza risulta che il dottor Josef Buhler, segretario di Stato per il Governatorato Generale, spinse Reinhard Heydrich ad avviare la «soluzione finale» nel proprio distretto amministrativo. Il piano tedesco prevedeva l’eliminazione delle “razze inferiori”, a cui si faceva appartenere gruppi etnici Rom e Sinti (i cosiddetti zingari), comunisti, omosessuali, malati di mente,Testimoni di Geova, russi, polacchi ed altre popolazioni slave e ebrei.

Le decisioni prese a Wannsee portarono alla costruzione dei primi campi di sterminio nel contesto dell’Operazione Reinhard che provvide alla costruzione ed all’utilizzo di tre centri situati nel Governatorato Generale: Treblinka, Sobibór e Belzec che complessivamente, tra il 1942 ed l’ottobre1943, portarono alla morte di 1.700.000 persone deportate dai ghetti attraverso l’utilizzo di camere a gas fisse e mobili, che sfruttavano il monossido di carbonio per le uccisioni.

Le «esperienze» maturate nei campi dell’Operazione Reinhard condussero all’ampliamento del campo di concentramento di Auschwitz, situato strategicamente in una zona di facile accessibilità ferroviaria, e alla creazione di quattro nuove grandi camere a gas ed impianti di cremazione presso il centro distaccato di Auschwitz II – Birkenau.

Ad Auschwitz, per lo sterminio degli ebrei, vennero studiate nuove «soluzioni» che permettessero di eliminare il maggior numero di soggetti nel modo più rapido ed efficiente. Vennero dunque utilizzate le camere a gas, nelle quali il gas Zyklon B (acido prussico) veniva immesso attraverso normali docce: le vittime morivano per asfissia nell’arco di 10-15 minuti.

Il significato della Shoah rinvia indissolubilmente al senso del ricordo per il presente e alla ribellione al disumano.

L’olocausto ha una serie di ramificazioni politiche e sociali che arrivano fino al presente. Il bisogno di una patria per molti rifugiati ebrei portò una parte di loro a emigrare in Palestina, gran parte della quale sarebbe ben presto diventata il moderno Stato di Israele. Questa immigrazione ha avuto un effetto diretto sugli Arabi della regione, sul conflitto arabo-israeliano e il conflitto israelo-palestinese.

 

Alberto Burri

Burri inizia  negli anni della prigionia in Texas dopo il ’43 quella serie di “materie” che andranno a depistare ogni lettura convenzionale dell’arte precedentemente conosciuta. Lui fa tabula rasa del illustrativismo  epidermico, e della verosimiglianza imitativa della realtà, così come il cataclisma della guerra con le sue mostruosità aveva fatto nella coscienza umana, e sicuramente anche nella sua esperienza di medico al fronte.

Non era possibile, dopo tale vissuto, una continuità con il passato, bisognava ripartire da zero. E lui lo fa con la stessa perizia di quanto competeva ai grandi maestri dell’antichità, nella preparazione di grandi supporti, e nella profondità silenziosa della materia.

Il suo sembra essere un silenzio che nasce dal rispetto, e come tale si protrae per tutta la sua opera, alla quale difficilmente dedica commenti o spiegazioni, se non per smentire arbitrarie interpretazioni intorno al presunto intento drammatico – espressionista dei suoi lavori.

Burri rivendica un’autonomia nella realtà fisica della realtà. Nella materia stessa, convivono struttura e armonia, in contrapposizione alle esercitazioni squisitamente formali dell’astrattismo, o ai contenutismi più o meno naturalistici dell’arte precedente votata alla mimesi. Lui studia i contenuti interni della materia, senza calcoli matematici o con l’intenzione di riportare i propri psicologici. L’ostentata miserevolezza dei supporti si contrappone alla sontuosità aristocratica degli effetti cromatici e luministici.

Nella scelta dei materiali possiamo percepire gli echi di una memoria storica collettiva e privata dell’artista; come nel caso dei sacchi di juta, fatti arrivare direttamente dall’america col loro contenuto lacerato e marchiato dalle stampigliature nere o brunastre del trasporto. Lui non altera e non adatta la materia, ma vi interviene in maniera esplicita e fortemente riconoscibile; da qui l’espressione di “vitalità dirompente” e “ carnalità sensuale”, attribuite al suo lavoro da un amico e critico d’arte come Sweeney.

C’è una misura classica, imperturbabile, di antica memoria, che si rivela nella poetica di Burri, e nel suo rifiuto, attraverso la materia, di una gestualità irrazionale. Vi è una dimensione del manufatto che contiene al suo interno quasi una sacralità, una raffinatezza del gesto artistico, una grazia fine come in Renoir.

L’opera di Burri non sembra fatta per l’interpretazione verbale, letterale; sembra comunicare soltanto attraverso il suo mostrarsi, vitale, energetico e silente allo stesso tempo.

“La pittura è per me una libertà raggiunta, costantemente consolidata, difesa con prudenza”.

Alla domanda su cosa sia un’artista Burri risponde : “l’artista è uno che fa, e quello che fa gli viene bene”.

Nel suo isolamento intellettuale, quasi eremitico, resta lontano da ogni commento o intenzionalità oratoria, facendo parlare solo la materia, attraverso il suo contenuto intrinseco, che lui semplicemente svela, con tutta la sua densità di vissuto e di memoria.

 

Tra materia e memoria : Munch, Medardo Rosso, Burri

-       Per Munch l’arte ha uno scopo in funzione dell’uomo, perciò scava nei drammi della propria memoria. Usa il colore e le sue facoltà percettive per esprimere l’intensità delle sensazioni. L’opera deve essere un atto di umanità, non può limitarsi a essere l’espressione della bellezza.

-       Per Medardo la vera materia è l’immateriale, e l’opera d’arte deve trarre ispirazione dalla memoria per perdere il superfluo e arrivare all’essenza, all’infinito.

-       In Burri la memoria è diventata materia e nella materia trova il suo equilibrio. Il fare artistico per lui non ha bisogno di esplicazioni. Contiene in sé già tutta la storia dell’artista e ciò che vuole comunicare.

 Conclusione

 Ogni artista è obbligato a confrontarsi con questi due elementi sia quando accetta di interrogarli, che quando decide di abbandonarli.

Nel primo caso abbiamo Proust, che trova nella memoria un luogo mitico, ideale, di grande significato che va recuperato attraverso l’arte; oppure Munch che mette il dito nelle piaghe della sua esistenza, mettendo la dignità del dolore alla pari della ricerca del benessere, per il suo ruolo rivelatore del senso dell’esistenza. Anche Montale interroga la memoria attraverso i ricordi, e con questi rinnova la speranza di trovare quel “varco”, che lo porti al di fuori del suo tormento interiore.

Medardo Rosso invece appartiene a quanti decidono di abbandonare uno degli aspetti, per concentrarsi sull’importanza dell’altro. Rosso nella sua maturità di artista si accorge di non aver più bisogno della materia, perché soltanto evocando la realtà attraverso la memoria si può giungere alla verità.

Burri invece rifiuta l’idea di indagare le vicissitudini del passato ai fini dell’arte; lui interroga la materia, che trasformata dalla sua sensibilità e dalle inevitabili tracce che vi ha lasciato il passato, rende tangibile ciò che la creazione artistica gli ha ha fatto trovare : l’equilibrio.

E’ una necessità del vivere per alcune persone, quella di instaurare un dialogo con la propria parte più profonda, attraverso l’atto della creazione. Si compie un percorso in cui alcune tappe sono delle rivelazioni, impossibili da prevedere o da conoscere in altro modo. Non è dall’utile ne dalla speculazione che si approda ad alcunché, ma dal porsi in ascolto e da questo ascolto percepire la bellezza di una condizione, che se pur tragica, sente la necessità di comunicare, al di là del mezzo, al di là della materia, al di là della memoria.

 

 

 

 

 

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